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"Il Pagliaio" - Ricovero provvisorio per pastori e contadini in epoche lontane |
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Occuparsi di piatti e ricette “ tradizionali ” spesso significa raccontare la storia dei poveri, dei dominati, in quanto le tavole dei ricchi sono sempre state imbandite con prodotti provenienti dalle regioni più diverse e più lontane. A cucinare per i benestanti, tuttavia, erano sempre i meno abbienti che portavano nelle cucine delle nobili famiglie esperienza e saperi maturati in ben più angusti locali. È per tale ragione che, quando la gastronomia non si limita ad essere una moda oppure una semplice elencazione di ingredienti e procedimenti, ma si fa studio, ricerca nel proprio passato, diventa cultura.
E accade così che, occupandoci di ciò che mangiavamo, scopriamo ciò che eravamo e ciò che siamo. Cercare le radici della cucina lucana non è tuttavia semplice. La nostra storia gastronomica è segnata dalle contaminazioni. Greci, Romani, Normanni, Saraceni, Iapigi, Svevi, Angioini, Borboni: tutti hanno lasciato traccia del loro passaggio su questa terra, divenuta crocevia di popoli, culture, sapori ed odori diversi. |
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Più che separare e indagare conviene, allora, accogliere ed assaporare piatti che sono vere e proprie testimonianze di culture lontane che in Lucania si sono incontrate e fuse.
Da sempre nei tempi più duri, come nella miseria “ solita ”, i ricchi mangiavano mentre i poveri si nutrivano.
La Storia è antica ma sempre uguale. Documenti scritti raccontano che sia nei periodi di guerra che di pace, erano continue per la Basilicata le richieste di viveri da parte degli Angioini.
I principali centri del Vulture dovevano inviarli alle truppe che assediavano Lucera; a Melfi si chiedevano in particolare frumento e vino. A nessuno interessava che i contadini non ne avessero per loro. I panettieri di corte venivano “invitati” a scegliersi un luogo presso Lagopesole, ove costruire una casa ed un forno per panificare a vantaggio delle mense reali.
Per capire quanto il grano fosse prezioso basti pensare che, insieme al pane, esso veniva utilizzato come moneta nei contratti e negli ingaggi e giornata. Intorno al XVI secolo, col fiorire delle attività commercilali, anche la vendita del pane diventò un affare si tentò di vietare che si panificasse in casa, nei forni alimentati a legna che si trovavano all'interno o all'esterno delle abitazioni. |
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"Il Castello di Lagopesole" - I dintorni del Castello all'inizio del 1900 |
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Si paga per cuocere il pane, dunque, ma si paga anche per macinare il grano nei mulini, con costi gravosi da sostenere.
In Lucania, a causa della natura accidentata del suolo, si diffuse soprattutto il mulino ad acqua, conosciuto già da Vitruvio.
Esso si aggiunse a quelli già da tempo funzionanti, spinti a mano o mossi da trazione animale.
Sono i ricchi feudatari a gestire i mulini ad acqua, poichè alto è il prezzo dell'impianto e della sua manutenzione e ingenti i profitti che se ne ricavano. Il contadino viene assoggettato a macinare il proprio grano nei mulini baronali e fin dall'Alto Medioevo, i nobili fanno dono degli impianti agli Enti ecclesiastici. In Lucania ne è testimonianza un atto del 1308 in cui si afferma che i Vescovi di Rapolla percepiscono la decima sui mulini della valle di Vitalba. |
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Il pane prodotto in questi secoli è profondamente diverso da quello che noi siamo abituati a vedere sulle nostre tavole. Spesso tossico, micidiale, veniva impastato con cereali di vario genere, ma anche con ghiande, bacche, erbe e a volte dotate di proprietà allucinogene. Nei periodi di più grave carestia si mischiava alle farine addirittura del terriccio.
Con il passare dei secoli la situazione non muta in meglio.
Agli inizi del XIX secolo la povertà era tale che “ molte famiglie in certi giorni non veggono menomamente del pane e cibansi solamente di ortaggio ed erbe selvagge ” come si legge nella “Statistica del Regno di Napoli”, disposta da Gioacchino Murat nel 1811. i contadini si alimentano di polenta condita con grassi di maiale, e poi “ghiande allesse o arrostite”, patate, castagne e perfino “semi di canapa in frittura”. Il pane di frumento compare nelle mense dei proprietari, mentre la “classe meschina fa uso di pane misto a orzo, legumi, segala, vecce ed anche di pomi di terra e si mischiano delle farine di biada e di frumentone”.
Nè l'alimentazione risulta migliorata alla fine dell'Ottocento. L'inchiesta lacini, promossa dal Parlamento nel 1877, rileva che la carne si consuma in caso di malattie o nelle grandi ricorrenze. Scarso il consumo di vino e latte. La minestra ordinaria dei contadini è costituita da pane bollito con sale, olio, peperoni secchi. Il pane è tanto pesante, duro, malcotto che spesso i contadini devono “ spunzarl ”, cioè bagnarlo, o metterlo a pezzi nell'acquasale, cioè acqua bollita con sale, olio, prezzemolo, aglio e “ cirasedda ”.
L'inchiesta Faina-Nitti (1907-1910) mostra un quadro leggermente migliorato. La dieta contadina in Basilicata è sempre prevalentemente e forzatamente vegetariana, ancora insufficiente alle esigenze fisiologiche di un lavoratore della terra. Autorevoli intellettuali, tra cui Giustino Fortunato, denunciano apertamente l'estrema povertà della regione. Nonostante nell'inchiesta si affermi che “ in generale, quasi ovunque l'alimentazione è migliorata ”, nella realtà svelata dalla stessa inchiesta, testimonianze parlano di realtà zonali in cui il livello alimentare delle classi lavoratrici rurali cade largamente al di sotto della media. Vi sono contadini che affermano di non mangiare pane che per cinque o sei mesi l'anno, vivendo quasi esclusivamente di “ patate e granone ”. |
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"Campo di Mais " - Ecotipo locale |
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È figlia di questa povertà quantitativa e qualitativa la “ carchiola ”, la semplice pizza azzima preparata nell'aviglianese con acqua e farina di mais. Quello stesso mais che, portato dai coloni di rientro dalle Americhe più volte salvò l'Europa dalla carestia e più volte gettò masse di indigenti nella pellagra, malattia causata dalla carenza vitaminica.
Introdotto nel Principato Ultra agli inizi del Seicento, il “ granturco ” si affiancò ad altri grani e ai legumi e permise il sostentamento della popolazione in aumento. Che cosa mangiassero i lucani poveri in quel periodo lo scopriamo anche leggendo lo statuto comunale di Ruoti datato il 3 agosto 1621, in cui si vieta la raccolta delle ghiande nelle terre di proprietà del barone Antonio Caracciolo, pena una multa per chi fosse strato colto in fragranza di reato.
La produzione del granturco aumenta progressivamente e il cereale diventa ben presto base dell'alimentazione. Viene utilizzato per ingrassare i maiali e sfamare i contadini e nei periodi di magra è quasi l'unico cibo e mezzo di scambio locale.
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Con i Piemontesi si diffonde ulteriormente l'uso di consumarlo in polenta. Durante il periodo fascista, a causa della razionalizzazione della farina di grano, la carchiola continua ad accompagnare le minestre, mentre il pane di grano viene riservato solo agli anziani ed ai malati moribondi, come testimoniano anche alcuni modi di dire diffusi nell'aviglianese.
In Basilicata il granturco nutrirà i più poveri fino agli anni successivi al secondo conflitto mondiale. Esso è ancora utilizzato in piatti che vengono preparati secondo modalità e ingredienti simili in molti paesi lucani e che definiamo “ tipici ”. Spesso a distinguerli vi è solamente il nome e alcune sfumature nella preparazione. Oggi la carchiola viene consumata durante sagre che ne ricordano la grande importanza avuta per tre secoli nell'alimentazione contadina. Pochi cultori ancora la preparano a casa o in campagna, ed essa non è più il pasto quotidiano di chi non può cibarsi di altro ma rappresenta un salto in quel passato non troppo lontano in cui più che una scelta era una necessità. Grazie ad agricoltori definiti “ custodi ”, che hanno conservato ecotipi locali di mais, è possibile oggi gustare questa pizza azzima che accompagnava minestre di verdure e altre pietanze. La sua diffusione nell'alimentazione contadina è legata certamente al cereale da cui è prodotta, il granturco, ma anche alla velocità di preparazione e al fatto che poteva essere cotta direttamente sulla brace e dunque non era necessario recarsi nei forni comuni pagando per la cottura. |
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"La r'ticula" e "La r'sulecchià" |
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Le donne, una volta impastata la farina con acqua bollente, ponevano a cuocere l'impasto ridotto a forma di pizza sotto una coppa di metallo, su cui mettevano brace ardente. Il latino, la coppa e il “ carchèsium ”, termine che rappresenta probabilmente l'origine della parola “ carchiola ”.
Il prodotto e il metodo di cottura erano definiti nel dialetto di Avigliano “ fucàzza r' cicc'sotta à la coppa ”, una sorta di pane dei poveri che poteva essere consumato caldo o conservato sotto le coperte e riscaldato successivamente. Precedente alla carchiola di mais è attestato fino al 1500 circa, è un piccolo pane (“ panellus ”) di farro cotto sul focolare utilizzando la coppa e la brace ardente. Era chiamato in dialetto “lu paniedde”.
Successivamente, la farina di farro fu sostituita da quella di granturco. Probabilmente “ lu paniedde ” accompagnato da qualche cipolla o da qualche altro companatico, costituiva il cibo quotidiano che i contadini consumavano nei campi, mentre la carchiola veniva utilizzata durante il pasto serale a casa. |
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Testimonianze orali legano la nascita della carchiola così come oggi la conosciamo al terribile terremoto che sconvolse la Basilicata alla fine del Seicento. Macerie, fame, morte regnano anche nelle campagne di Avigliano, ed è l'estrema volontà di una mamma che non vuol vedere morire di fame i propri figli che la porta ad igegnarsi per preparare la pizza anche senza le masserizie, smarrite a causa del terremoto. La donna mescola la farina di mais con l'acqua, lavora l'impasto su una pietra, lo cuoce direttamente sulla brace facendo attenzione a non bruciarlo. |
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"La Carchiola" - Momento della cottura |
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Una volta pronta, si rende conto che è un pò dura e pensa di accompagnarla alla minestra di verdure selvatiche preparata nella pignata di coccio. La carchiola è pronta a passare attraverso tre secoli di fame e di malnutrizione, a sostituire il pane anche nei modi di dire. Nella sua autobiografia Carmine Donatelli Crocco riferisce con orgoglio che Ninco Nanco, terribile brigante di Avigliano, ritrovatosi a far da capofamiglia dopo la morte dei suoi genitori, non fece mancare mai la carchiola ai suoi fratelli.
Furono probabilmente gli artigiani maniscalchi di Avigliano a forgiare la “ r' ticula ”, la griglia di forma circolare con un perno centrale che dà la possibilità di girare la carchiola senza spostarla dal fuoco. È l'attrezzo utilizzato ancora oggi per cuocere la pizza senza scottarsi e per ottenere una cottura uniforme.
Un alimento, dunque, la carchiola, attraverso cui è possibile leggere il nostro passato. Testimonianza di secoli di fame, disagio ma anche di ingegno, produttività umana e spirito di adattamento. Cultura, appunto. |
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TESTI: Maria Ripullone
CONSULTAZIONI ORALI: Pietro Verrastro, Tommaso Lacerenza
FOTO: Luigi Luccioni <Tratto dalla Nazione Aviglianese>, Pietro Verrastro, Vito Gruosso, Antonio Genovese |
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